Vessazioni, discriminazioni e ingiustizie: quali sono i diritti e le tutele offerte in sede penale in caso di comportamenti vessatori e ingiusti sul lavoro per le mamme lavoratrici?
Il presente approfondimento nasce dal recente caso della pallavolista Lara Lugli, citata per danni dal Volley Pordenone, perché avrebbe taciuto la possibilità di diventare madre, e poi una volta incinta, avrebbe danneggiato la società con la sua assenza.
Tale episodio si inquadra in un ambito particolare, poiché riguarda il mondo dello sport non professionistico dove esistono ancora tra atleta e società le cosiddette clausole di gravidanza, ma pone comunque numerosi interrogativi: cosa succede alle lavoratrici da poco diventate madri?
Oltre alla difficoltà di dover conciliare i ritmi della nuova vita da madre con quelli degli impegni professionali, spesso le neo mamme al rientro in ufficio sono costrette a dover subire pratiche davvero spiacevoli quali, ad esempio, demansionamenti, vessazioni e umiliazioni da parte del datore di lavoro.
Tali comportamenti hanno fatto emergere negli ultimi anni al cosiddetto fenomeno del “mobbing per maternità”.
Il mobbing consiste in un insieme di condotte, reiterate nel tempo, tese ad escludere ed isolare un lavoratore, come gli insulti, la svalutazione del lavoro, l’esclusione dal gruppo, fino a distruggerne l’autostima, al fine di portarlo a dimettersi dal posto di lavoro.
Il mobbing espone, di per sé, l’azienda al rischio di dover risarcire al dipendente i danni subiti. Inoltre, quando ad essere mobbizzata è una lavoratrice da poco diventata madre, la condotta assume dei connotati di maggiore gravità.
Concentrandoci in questa sede sugli eventuali profili penalistici della questione, andrà preliminarmente considerato che, anche prima delle modifiche apportate all’art. 572 c.p. dalla L. n. 172 del 2012, la giurisprudenza di legittimità aveva affermato che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione ed umiliazione (cd. “mobbing“), possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para – familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia – soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (cfr. tra tante Cass. Pen. sez. II, 06/12/2017, n.7639; Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 26-11-2020) 14-01-2021, n. 1582).
Tale rapporto, dunque, avuto riguardo alla ratio della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., deve comunque essere caratterizzato dal tratto della “familiarità”, poiché è soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para – familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della sua funzione attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti.
Occorre quindi evidenziare che l’art. 572 cod. pen. ha allargato l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello strettamente endo – familiare e che, quindi, al suo interno possono ricomprendersi ora anche quelle condotte che si incardinano nel rapporto di sovraordinazione caratterizzato dalla sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.
Ciò posto, ove la condotta qualificata come “mobbing”, assumendo i connotati poc’anzi descritti, causi una lesione all’integrità psico-fisica del lavoratore ed – in una forma ancora più grave – nella lavoratrice neo mamma (come ad es. patologie psico-fisiche quali ansia, depressione, attacchi di panico, problemi cardiovascolari, esaurimento etc.), questa potrebbe decidere di sporgere formale atto di denuncia-querela avanti le competenti Autorità per ottenere – in sede penale – la condanna del datore di lavoro per il reato di cui all’art. 572 c.p. ed al risarcimento del danno subito.